Una fashion industry "globale" sarà mai veramente possibile?
Tutti che sfilano in Cina, ma a noi in Italia chi ce lo racconta?
Buondì, come state? ☕ Dopo i due appuntamenti di questo mese - Sabato De Sarno a Gucci: cosa cambierà in Cina con il suo arrivo? e Shanghai Fashion Week e Governo cinese: due direzioni opposte? - avrei dovuto dedicare l’appuntamento premium di oggi a un nuovo #Talk. Tuttavia, è da poco terminata la Shanghai Fashion Week e vorrei cogliere l’occasione per immergerci in una nuova riflessione finché il tema è caldo. L’idea di non limitare più la versione Premium di questa newsletter ai soli #Talk mi piace (voi che ne dite?), mi sembra una direzione coerente con lo scopo che questa newsletter sta abbracciando sempre di più: colmare il gap e stimolare il pensiero critico.
La Shanghai Fashion Week è finita e, su Vogue Runway, il giornalista José Criales-Unzueta ha raccolto un virgolettato interessante, a cui dà rilievo nel titolo stesso del suo pezzo: Il motto è “diventare globali” - la Shanghai Fashion Week torna al pieno delle sue forze. Vi lancio una provocazione, però: quando parliamo di “fashion industry globale” in occidente, la Cina è inclusa? E che cosa intendiamo esattamente con l’aggettivo “globale”? Cos’è che deve essere “globale”? Snocciolerò questa riflessione nell’ambito che più mi tocca da vicino: il giornalismo e la comunicazione, social media compresi. Perché ho la sensazione che le grandi case di moda non abbiano ancora una visione “globale” quando si parla di Cina. Che Shanghai sia ancora per molti un porto dove attraccare, andare, pubblicizzarsi, rifare le valigie e tornare a casa. Stella McCartney, ad esempio, ha avuto un ruolo dominante in questa fashion week di Shanghai appena conclusa, ma sento di voler mettere in discussione un aspetto della sua strategia, che dissezionerò più sotto. A distanza di un anno da Quanto è inclusivo il giornalismo di moda, quando (e se) si parla di Cina?, cos’è cambiato? Facciamo il punto.